Venezia.

“Ho preso un treno per venire da te, l’ho preso sette mesi fa sai”.
(Lo Stato Sociale)

 

Pianura. Lunghissima e gialla di grano da cogliere.
Procedendo verso Nord le spighe ringiovaniscono, immature.
I Colli Euganei emergono dal terreno, isole verdi dalle pareti spezzate da frane umide.
Treni merci passano lenti, diretti a territori teutonici, a scambiare efficienza per prelibatezze culinarie.
Gli accenti dei passeggeri cambiano: si chiudono, le vocali mutano.
Una famiglia di spagnoli scenderà alla fermata successiva alla sua, e per qualche giorno la loro lingua cantata scivolerà tra gondole e calli, rassicurata da un’antica fraternità.

Le rotaie corrono sulla laguna, quasi emergendo da essa. Una città singolare, unica.
Perdersi tra i vicoli per poi ritrovarsi negli slarghi.
Scende la sera.
Dopo il tramonto Venezia pare abbandonata.
I turisti sono ad affollare altri lidi, gli abitanti nascosti dietro i vetri.

In piazza San Marco, illuminata di bianco candore, le note di “I can’t help falling in love” di Elvis, riempiono la notte.
Una coppia balla, aggrappati l’uno all’altra: la certezza di salvarsi.

Una musica gitana, invece, invade il mercato del pesce, privandolo del sonno, mantenendolo attivo fino all’arrivo dei pescivendoli assieme al nuovo sole.
Alcuni ragazzi ballano, altri chiacchierano tra i fumi profumati con le gambe a penzoloni dal molo.

Tenersi per mano, per scoprire una Venezia quasi mistica, in una calda sera d’estate.


A G.,
che sa guidarmi in ogni luogo.

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