Ad un primo sguardo sembra un paradosso trovarsi a Vidiciatico, all’imbocco del Parco Regionale del Corno alle Scale, e decidere, invece di indossare le ciaspole o dotare gli sci delle pelli, di darsi al trekking urbano.
Ma la motivazione che la porta a preferire le sue nuove ed ammortizzatissime scarpe da asfalto invece degli scarponcini invernali, è chiara e semplice: non le piace la neve.
O meglio, la neve le piace molto quando è in casa, al caldo, una fedele tazza di tè come compagna, mentre fuori nevica a grandi fiocchi. Le piace molto quando durante la notte si è posata su tetti e strade, e può passare la giornata a leggere sul divano, immersa nell’atmosfera ovattata che la neve crea, con il suo silenzio irreale, godendosi il panorama candido, di tanto in tanto, dalla finestra.
Ma non le piace per niente camminarci attraverso, la fatica smisurata che causa, il freddo, il bagnato che comporta, l’arrossamento delle guance e l’increspatura dei capelli.
Ama l’estate, e la primavera. Ama i sentieri asciutti, o appena ammorbiditi dalla rugiada, l’erba verdissima o riarsa dal sole. Ama le temperature miti, e anche, assurdamente, i caldi torridi.
Odia l’inverno, il buio che arriva prima e tarda ad andarsene. Odia la neve fresca e quella indurita da gelo, la pioggerellina ghiacciata. Odia le temperature rigide che le serrano la gola e le graffiano la pelle.
Quindi, trovandosi in montagna per una fortunata serie di eventi poco prima che il colore della Emilia-Romagna viri nuovamente all’arancione, preferisce sforzare le giunture sull’asfalto, invece che obbligare l’intero corpo in una guerra contro la propria volontà e contro la neve copiosa che imbianca la montagna di casa.
Vidiciatico è il paese dove lei ha passato ogni giorno di vacanza le sia stato possibile sfruttare tra i sei e i diciotto anni.
Situato a 810 metri s.l.m., conta ad oggi circa quattrocentocinquanta abitanti, e la maggior parte delle case del paese sono abitazioni di villeggiatura. Infatti, d’estate o durante la stagione sciistica, la popolazione quasi raddoppia e richiama, seppur non allo stesso livello, i ricordi, malinconici, di quando il paese era effettivamente una importante meta turistica nell’Appennino.
Lei, negli anni ’90, usciva da scuola, saltava sulla corriera (da pronunciare senza la doppia r) e per un accordo non scritto con l’autista si faceva lasciare illegalmente all’incrocio con la strada in cui abitava la nonna, che la aspettava con l’immancabile grembiule, mentre una perenne pentola di ragù sobbolliva sulla stufa. Saliva le scale e dal balcone gridava a gran voce il nome della sua compagna di avventure, che abitava nella casa di fronte, per comunicarle che era arrivata, e darsi appuntamento per pochi minuti dopo, giusto il tempo di indossare abiti più comodi, per giocare assieme ore e ore, instancabili.
Durante le vacanze di Natale si sistemava in montagna, con una dotazione di dolcevita caldi e l’immancabile tuta da sci, per infinite discese in sci o in bob, tantissime tazze di latte con il cioccolato a pezzettoni dentro, ricetta segreta della nonna, e qualche giornata di vita nell’iglù che quando le nevicate erano copiose le veniva costruito in giardino. Allora, con la neve, aveva un rapporto migliore.
Da più grande, si presentava con la valigia, e passava lì tutto il mese di agosto, in un turbinio di amici villeggianti che si ritrovavano cresciuti di un anno ma ben poco cambiati, tra gite in piscina e alle Cascate del Dardagna, serate a parlare alla Panca ed a raccontarsi segreti sotto la finestra, ben oltre il coprifuoco, sotto l’occhio, o meglio l’orecchio, vigile della nonna. Quelle serate, qualunque fosse l’orario, terminavano tutte con un’immancabile partita a briscola, nonna contro nipote. Non ne hai mai vinta una.
Il centro del paese si sviluppa attorno alla Fontana della Salute, dalla quale sgorga instancabile l’acqua di sorgente, la più buona che lei abbia mai bevuto. Sulla destra c’è la chiesa parrocchiale, con di fronte la piazza, sulla sinistra l’edicola, il cinema e i giardinetti pubblici. Tutto attorno, strutture ricettive, ristoranti e bar, in immobile attesa.
Sopra i giardini pubblici, vi è l’Oratorio di San Rocco, risalente al 1631, costruito come ex-voto per la cessazione della peste del 1630, che causò circa ventitremila vittime nella città di Bologna e circa diciottomila in provincia. Si narra che durante l’epidemia i paesani decisero di acquistare due statue di cartapesta raffiguranti San Rocco e San Sebastiano, le quali appena giunsero al paese di Vidiciatico fecero cessare la peste.
Per questo motivo si decise di erigere il piccolo oratorio per ospitare le statue dei santi, poste ai due lati dell’altare, costituito da un unico ambiente a pianta rettangolare, con all’esterno un piccolo porticato a tre colonne, di cui sopravvivono ancora le travature in legno originali. Costruito in arenaria locale, intonacata esternamente negli anni ’30 del Novecento, ha la copertura in piagne, lastre tondeggianti sempre di arenaria, tipiche delle costruzioni montane. Accanto alla porta di ingresso vi è una piccola formella rappresentante una croce templare. Completa la struttura un piccolo campanile a vela, unico nella zona, con due campane.
All’interno, sopra l’altare, è collocata un’immagine della Madonna di Loreto con attorno i Santi Pietro, Giovanni, Rocco e Sebastiano. Recentemente, è stato portato alla luce un affresco probabilmente risalente all’epoca della costruzione dell’edificio, raffigurante un uomo in una nicchia, con un libro e un bastone. Questi dettagli permettono di attribuire la figura a San Giacomo Apostolo in abiti da pellegrino.
San Rocco, infine, è il patrono degli appestati e dei pellegrini, le pareva adeguato iniziare idealmente l’itinerario da qui.
Il Santuario di Madonna dell’Acero è situato a 1200 metri s.l.m..
La località omonima pare dovere il suo nome ad un avvenimento al limite tra realtà e leggenda, collocabile agli inizi del 1500.
Due pastorelli sordomuti intenti a curare il proprio gregge in questa zona, furono colti da una tempesta, e trovarono rifugio sotto un enorme acero. Qui, gli apparve la Madonna, squarciando di luce la coltre di maltempo, facendo riacquistare l’udito e la parola ai due ragazzini, i quali rientrarono a casa e riferirono a tutti che la Vergine desiderava essere venerata in quel luogo.
La notizia dell’apparizione si diffuse rapidamente lungo tutta la Valle del Dardagna, ed le genti iniziarono a recarsi sul luogo dell’evento, ove una piccola raffigurazione della Vergine era stata posta sul tronco dell’acero che aveva coperto con i suoi rami i pastorelli, ricolme di devozione, tanto da edificare nel 1535 una prima semplice cappella in pietra. Furono tagliati i rami dell’acero lasciando nel terreno solo il tronco che racchiudeva l’immagine sacra (ora conservata in una cappellina al centro del piazzale erboso). La costruzione fu rimaneggiata ed assunse le sembianze attuali circa nel 1692.
L’acero è un albero adatto a rappresentare il carattere dei montanari: tenace e testardo, vive anche in luoghi in cui altre specie arboree non attecchiscono, è capace di spingere le proprie radici in poca terra ed estendere i propri rami ampi verso il cielo, per raccogliere più luce possibile.
Dal Bollettino Informativo n. 4 Luglio 2019, l’articolo di Claudio Gamberi, presidente dell’Associazione Amici del Santuario di Madonna dell’Acero:
[…] L’albero è stato inserito nella lista degli Alberi Monumentali d’Italia, nella categoria degli esemplari ritenuti di eccezionale valore storico o monumentale ed al momento di quel Censimento, nel 1982, aveva una circonferenza di 4,75 metri ed una altezza di 10 metri; l’età non è determinabile, ma si tratta sicuramente di un esemplare plurisecolare.
[…] Negli anni ‘70, la pianta si è ammalata gravemente di carie fungina, una malattia che fa “marcire” il legno, compromettendo stabilità e vitalità della pianta. A più riprese sono stati effettuati dalla Regione Emilia-Romagna e dall’Ente Parco Corno alle Scale, interventi di potatura, anche drastica, con asportazione del fusto principale, e di branche primarie, seguiti da trattamenti chimici e di isolamento del legno esterno con catrame ed altre sostanze. Nonostante ciò, il declino della pianta sembra inarrestabile.
Attualmente resta la base del tronco, con due vecchi rami, inseriti quasi perpendicolarmente verso sud e sostenuti da una struttura di pali di legno, una specie di stampella inserita insieme alle ultime cure fatte alla pianta, su cui si sono sviluppati alcuni giovani ricacci, meno di una decina, assurgenti verso l’alto quasi in segno di speranza.
All’interno del Santuario, aperto da maggio ad ottobre, sono conservati alla destra dell’ingresso moltissimi ex-voto, segno della lunga storia di devozione che ha caratterizzato la zona. Tra questi, ve ne è uno molto particolare, costituito da quattro statue lignee, rappresentanti la famiglia di Brunetto Brunori e fatte realizzare per ricordare come egli è scampato alla morte nella battaglia di Gavinana del 3 agosto 1530. Due giorni dopo, infatti, ferito, giunse al Santuario dell’Acero assieme alla moglie e ai figli, e guarì, avendo salva la vita.
E’ uno dei suoi posti preferiti, soprattutto nei momenti di calma turistica, in autunno inoltrato o all’inizio della primavera, dove dona anche il meglio di sé dal punto di vista delle cromie di cui si arricchisce. Non poteva non tornarvi un’ultima volta prima di chissà quante giornate arancioni che la bloccheranno in città.
L’itinerario è molto semplice e consta di un’andata e ritorno lungo la medesima strada.
Parte dall’Oratorio di San Rocco, in Via Panoramica 29G a Vidiciatico, ed arriva al Santuario di Madonna dell’Acero, al 194 dell’omonima via.
Dall’Oratorio si imbocca Via Marconi, e la si segue fino all’uscita dal paese, appena oltre l’Hotel Corno alle Scale, quando la si lascia prendendo l’ampio curvone in salita sulla sinistra, dove vi sono le indicazioni per gli impianti di risalita. Da qui, fino al Santuario si segue la strada SP71 o Strada del Cavone.
E’ impossibile sbagliare: non ci sono bivi né deviazioni, ed il serpentone di asfalto si srotola attraverso i fitti alberi della foresta, prima caducifoglie dal tronco longilineo poi conifere, attraversando in sequenza i centri abitati di La Cà e di Cà Berna, quat’ultimo teatro di un efferato eccidio nazi-fascista che ha causato la morte di 29 civili il 27 settembre 1944, come rappresaglia nei confronti di un’azione della 7a brigata Modena-Armando ai danni di un reparto tedesco.
lunghezza a/r: 17 km
dislivello: circa 400 m
durata a/r: 4 ore
Alla mia amica Giorgia,
per ogni marachella ed avventura.