Li ho conosciuti tutti e tre in una fresca e nuvolosa mattina di giugno del 2016, davanti all’ingresso di un albergo montano che oggi non esiste più come tale.
Di uno, colpiva l’entusiasmo dell’affrontare il mondo e la voglia di lasciarsi stupire.
Di un altro, la spontaneità e l’incedere costante, inamovibile. E qualcosa di blu, che é ancora oggi il colore che gli associo.
Dell’altro ancora, le lunghe gambe di gru e la mole di storie da raccontare.
Li ho rincontrati tutti assieme una seconda volta, sul Lago di Garda, quello stesso autunno.
Ma del Garda non si parla, né si scrive.
La prima volta che ho scritto di loro, erano tornati vittoriosi da qualche mese dalla Bari-Gerusalemme (a piedi).
Era stato emozionante camminare virtualmente con loro, seguirli sulla carta, prima leggere e poi ascoltare le storie di uno di loro.
Faceva venire voglia di essere lì.
[Anche se tu non avresti retto, non avresti mangiato abbastanza, non avresti potuto. Non faceva per te.]
Poi, li ho persi, per lungo tempo.
Li ho rivisti, tutti e tre assieme, dopo che due di loro avevano portato a termine un viaggio estivo lungo l’Alta Via dei Parchi.
Attraversando luoghi in cui ero stata o cresciuta, dormendo presso gli stessi rifugi e ospitalità, vivendo esperienze simili.
Loro sono arrivati a Bologna innamorati di quello che io considero il mio Appennino, e io mi sono lasciata affascinare da storie e ricordi.
Li ho ritrovati, ancora tutti insieme, questo fine settimana di metà luglio, proprio sul mio Appennino, vicino ai luoghi che un paio di anni prima li avevano accolti.
E per la prima volta, ho potuto camminare con loro.
Solo con loro. Assieme a loro.
Abbiamo organizzato un itinerario che non c’era.
Dal balcone della finestra della casa in sasso, per raggiungere il monte che da lì si vede, senza seguire un percorso pre-disegnato da altri.
A vista, tra boschi, polle, prati e campi.
Quei tre.
Mi hanno guidata, indirizzata, tra rovi, prugnoli spinosi e arbusti.
Attraverso l’erba alta, carica di spighe e fiori, in salita e in discesa.
Mi hanno insegnato un approccio nuovo, senza usare nemmeno una parola per farlo.
Mi hanno mostrato come si sceglie una strada, come i cinghiali puntino sempre verso la possibilità di abbeverarsi.
Come mentre uno cerca la direzione con Google Maps, l’altro annusa l’aria e il terzo sfonda i rovi approcciandoli “di zaino”.
Mi hanno dato dimostrazione di a cosa serve davvero una fontana.
Mi hanno fatto vivere, seppur molto in piccolo, quello che è il loro modo di spostarsi a piedi all’interno del territorio, studiandolo, assecondandolo, lasciandosi guidare da esso.
Mi hanno accolta – quei tre – e protetta.
A ogni passo si sono presi cura di me.
[Diceva la voce interiore che tu non avresti retto, non avresti mangiato abbastanza, non avresti potuto. Non faceva mica per te.]
É stata una enorme emozione osservarli tra il selvatico, come gli piace dire.
Partecipare da una posizione privilegiata al ripetersi di determinate dinamiche, di cui tanto avevo sentito narrare.
Ascoltare le loro tre voci che si completavano a vicenda i racconti.
Osservare le loro consuetudini. E farne parte, in un certo qual modo.
Mi sono sentita un po’ come D’Artagnan la prima volta assieme ai tre moschettieri.
E, grazie a loro, ho retto, ho mangiato abbastanza, ho potuto. Ha fatto per me.
Mi sono anche divertita, tanto.
Una scoperta.
Una conquista.
Una giornata bella.
Con i polpacci pieni di graffi, la pelle colorata dal sole, il cuore pieno.
A Marco e Claudio, per essere ed esserci.
A Fabio, sempre.