La prima volta che è stata a Roma, aveva diciannove anni.
E’ scesa da un Eurostar, il 12 agosto, dopo quattro ore di viaggio e un libro letto per intero, in questa stazione enorme, quasi spaventosa.
Era da sola, per la prima volta probabilmente in una città sconosciuta.
Uno zaino pieno di magliette per affrontare il caldo, un paio di scarpe comode ai piedi e un posto sicuro dove passare la notte, perché sua madre non stesse troppo in pensiero.
Allora, ha passato cinque giorni ad esplorarla, perdendosi nei dettagli, osservando a bocca aperta ogni angolo. Chiedendosi come mai non fosse venuta prima, e promettendo a se stessa che sarebbe tornata, spesso.
E così ha fatto: almeno una volta all’anno, evitando come sola stagione l’inverno, è salita su treni via via più veloci ed è tornata nella Città Eterna.
Ma mancava da un po’, ed in questa strana estate quasi immobile, ha deciso di tornarci nello stesso periodo in cui c’era stata la prima volta: a metà agosto, quando la città è vuota e deserta.
In particolare, quest’anno, ancora più vuota e deserta per via dell’assenza del grande turismo di massa.
E nessuna scelta poteva essere migliore, per ritrovarla.

Ama Roma vuota, calda d’estate.
Ama l’odore che le lascia sulla pelle la città, la polvere che si incolla ai polpacci nudi.
Ama i pini marittimi, dai lunghi fusti e le chiome compatte.
Il profumo intenso di resina, il verde brillante in contrasto con il cielo terso e le pietre secolari.
Ama i vicoli scuri, lastricati di sampietrini troppo grandi, che la fanno inciampare quando cammina con la testa tra le nuvole. Ovvero sempre.
Ama i saliscendi della città, i colli dolci. Le strade che compiono una curva, e poi un’altra, cambiando pian piano il loro aspetto.
Ama aver imparato a conoscerla, a intuirla, e potersi muovere tra le vie senza l’ausilio di una mappa, cartacea o digitale, ma semplicemente avendo premura di identificare la direzione intrapresa rispetto ai quattro punti cardinali.
Ama le sue fontane, quelle monumentali che rinfrescano le piazze, e i più discreti “nasoni”, che distribuiscono acqua pubblica sempre ghiacciata, con cui bagnarsi i polsi, abbassare la temperatura, riempire la borraccia e lavare la frutta comprata sempre allo stesso banco del mercato.
Ama gli obelischi e le alte colonne decorate a raccontare una storia. Gli archi celebrativi, i colonnati senza più soffitto da sorreggere. Le targhe sui muri, che riassumono gli avvenimenti degli ultimi duemilaottocento anni, o poco meno.
Ama la Città del Vaticano, le sue contraddizioni ed i suoi riti.
Gli angeli del ponte a cui danno il nome, che sempre le incutono un po’ di timore. Pietro e Paolo, amici-nemici di una storia reale infarcita di immaginazione.
Ama i colonnati bianchi, porosi e perfetti, seppur transennati e controllati a vista da poliziotti e loschi figuri che provano a vendere biglietti e tour guidati. Le guardie svizzere vestite come scolaretti, le mura nord-orientali di mattoni rossi, che conducono all’ingresso dei Musei Vaticani, lungo le quali si incontrano i pellegrini in arrivo dalla Via Francigena.
Ama le stanze piene di segreti e statue, che se possedessero il dono della parola chissà quali intrighi saprebbero raccontare. I colori brillanti degli affreschi della Cappella Sistina spengono ogni altra decorazione.
Quasi odia Villa Borghese, di nome e di fatto. Ma in fondo ama tornarci ogni volta per poi potersene lagnare. E osservare la città, puntellata di cupole tra i tetti rossi, dall’alto della Terrazza del Pincio.
Da qui scendere su Piazza del Popolo, dove c’è sempre un artista di strada che imita Micheal Jackson. Passerà mai, di moda?
Ama attraversare lo spazio tra le due chiese color crema, apparentemente gemelle, imboccare Via del Corso, con i suoi negozi alla moda, e non fingere nemmeno di provare ad evitare gli ex-carcerati di Rebibbia, che le riescono a strappare sempre una moneta. Chissà se prima o poi scoprirà se sono davvero chi dicono di essere.
Ama la Chiesa della Trinità dei Monti, maestosa da fuori quanto piccola dentro, che dall’alto della scalinata, raramente così sgombra, domina Piazza di Spagna, dove un anziano si sporge nella Fontana del Bernini, per riempire la sua bottiglietta di acqua fresca.
Ama, molto, le altre ville e i giardini della città. I sentieri polverosi, l’ombra tiepida, i bambini che giocano liberi come in paese. I pettirossi senza paura, che si posano sulle panchine o direttamente sulle mani dei passanti.
Ama Villa Ada, selvaggia, con i boschi di sugheri, e dalla nobiltà decaduta.
Ama Villa Pamphilj, signorile, sconfinata, con i girotondi di siepi e i giochi d’acqua.
Ama, più di tutto, dopo essersi persa nel verde, trovare il posto adatto per fermarsi a leggere, il ronzio delle cicale in sottofondo, ignara del progredire della vita, oltre.

Ama gli spazi ampi delle piazze e quelli angusti dei vicoli.
Ama il Pantheon, e quella sua volta forata, come se si fossero dimenticati di terminarla, o come se la Luna avesse voluto squarciarla per rimirarsi nei marmi intarsiati del pavimento.
Ama Piazza Navona, le tre fontane che paiono vive. E trova sempre così impossibile da credere che un tempo, lì, si creasse una enorme piscina.
Ama la Roma imperiale, i racconti delle pietre, gli occhi vuoti delle statue, la sovrapposizione di simboli.
Ama il ghetto ebraico, la sua operosità che muta di tipologia nell’arco della giornata.
Ama il Portico d’Ottavia, in particolare con il favore della notte, quando si staglia alto e incompreso verso il firmamento.
Ama le centinaia di chiese, quelle fastose e quelle semplici.
Ama camminare, da sola, dove infinite persone lo hanno fatto prima di lei, con calzari di ogni tipo. Unite, tutte, dalla gestualità naturale dell’alzare prima un piede e poi l’altro, a posare i passi sulle medesime grandi lastre levigate del basolato.
Ama gli odori che escono dalle cucine, l’aglio che sfrigola a tutte le ore, la salsa di pomodoro densa che sobbolle, l’olio bollente che promette supplì e crocchette.
Odia le tovaglie a quadretti, mentre le piacciono i tavoli grezzi, rovinati dal tempo e dai gesti dei commensali. Ama il suono delle stoviglie che sbattono tra di loro.
Ama Trastevere, la sua genuinità, il brusio delle persone, i graffiti sui muri.
I colori del quartiere di giorno, le edere arrampicate sui muri, e le sere profumate, che richiamano alla memoria amici conosciuti per caso, amori finiti, che quasi non si ricordano più.
Ama sedersi sugli scalini, restare in un angolo, e osservare le vite degli altri che si consumano, mutano, si muovono. Immaginando storie, sogni e finali diversi.
Ama i romani, la loro schiettezza. La loro sfacciataggine, anche.
Le voci, dall’accento inconfondibile, che riempiono l’aria la sera.
Le risate rumorose, la mano sempre tesa verso il prossimo.
Ama il Tevere, che nasce quasi dal lato opposto dell’Italia, piccolo torrente gioioso, e giunge qui, nella Città Eterna, come fiume maestoso. Solcato di ponti, più o meno riccamente decorati.
La notte lo tinge del giallo dei lampioni, come fosse un acquerello.
Ama i colori caldi dei tramonti che si specchiano e tingono i marmi candidi.
La Luna a metà che appare nel cielo, sopra i monumenti secolari. Venere, verde iridescente, che brilla nonostante i troppi lampioni.
Le stelle che si accendono, cambiano via via posizione all’interno della volta celeste, e proseguono questo loro moto da sempre, ma sempre davvero. Da quando Roma non era, da quando Romolo, Remo e la Lupa non erano ancora nemmeno esistiti.

C’è un’ape che se posa
su un bottone de rosa:
lo succhia e se ne va…
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.
(Trilussa, Felicità)
A Silvana.
Mancherai.