Sala Stabat Mater. Palazzo dell’Archiginnasio. Bologna.
L’autore entra nella stanza gremita, tutte le sedie sono occupate, molte persone in piedi.
Tante hanno il suo libro in mano.
E’ accolto dagli applausi, l’anellino al lobo sinistro brilla alla luce dei neon.
Si siede al centro del lungo tavolo. Alla sua sinistra prendono posto un assessore della città e il direttore di una nota fondazione artistica, quella che contribuisce all’organizzazione del concorso del quale ha vinto il primo premio, lo Strega. Alla sua destra siede invece un critico letterario.
Mentre l’assessore ringrazia e il direttore della fondazione sparge lodi, gli occhi dell’autore si muovono inquieti, scorrono il pubblico da destra a sinistra. A cosa pensa?
Si accarezza i baffi biondi. Noia, o forse un po’ di agitazione per l’essere lì che prova a trapelare.
Prende la parola il critico, per la sua analisi degli ingredienti del romanzo.
A questo punto, l’autore si appoggia bene allo schienale, incrocia le braccia sul petto, concentrato sul movimento delle labbra dell’uomo. Si ascolta paragonato ad Alberto Moravia, precursore dell’approccio alla villeggiatura, con l’esplicito encomio di aver saputo trasformare il luogo di vacanza da spettatore a motore intimo dell’opera.
Quando, finalmente, prende la parola, la voce non è quella che ci sia aspetta da quel ragazzone con i capelli scarruffati. Morbida, priva di quelle note ruvide che sarebbero in accordo con i monti di cui narra, un leggero accento milanese.
Racconta di sé, della sua storia di lettore autodidatta, favorita della nascita dell’editoria indipendente italiana. Narra della disillusione dell’aspettare che la scrittura arrivi, facendosi trovare pronti, e dell’interesse per le biforcazioni, che coinvolgano fiumi o strade.
Il pubblico lo osserva, il fiato rallentato per non disturbare. Si appropria di ogni sillaba, ride alle battute, ma con moderazione.
Il suo dialogo unilaterale approda, infine, al suo ritorno alle montagne ed ad un passato fatto di luoghi felici, come il suo protagonista, che si è trascinato dietro una conquista dell’italiano come lingua propria, pura e cristallina, fatta di parole minime e necessarie, senza fronzoli. Oneste.
Fuori, nelle vie della città, infuria il ritmo del Jazz.
“Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa.”
(Le otto montagne, Paolo Cognetti)