I lampioni rosa di Venezia.

A camminare di notte per Venezia, prima dell’avvento dell’illuminazione, c’era da avere paura.
Per la conformazione stessa della città: era ed è facile perdersi in quel dedalo di strette calli, o scivolare dai ponticelli perennemente inumiditi e ritrovarsi in ammollo in un canale.
Inoltre, complice l’oscurità, era possibile anche cadere preda di ladri ed assassini.

Per questo motivo, nel 1128 il doge ordinò che nelle ore notturne le vie principali fossero illuminate da tremule fiaccole, placando, seppur in maniera labile, il problema delle possibili cadute, ma non quello degli agguati.
Tre secoli dopo, nel 1450, fu previsto che fossero i cittadini stessi a spostarsi per le strade buie portando con sé un lume.
Ne nacque un nuovo mestiere: il còdega, l’accompagnatore “illuminante” di professione.
Perché i facoltosi veneziani non volevano correre il rischio di affumicarsi le vesti durante le passeggiate notturne.

Devono passare altri tre secoli prima che, anticipando la maggior parte delle altre città italiane, nelle strade principali di Venezia fossero installati lampioni alimentati ad olio di oliva, per rischiarare le notti della laguna.
Anche questo provvedimento diede vita ad una nuova professione, l’impissaferai, che, munito di lunghe scale, accendeva i fanali al tramonto e li spegneva all’alba.
Agli inizi dell’800, per cui, al calar delle tenebre, la città si trasformava in uno scintillio di riverberi, che facevano brillare i mosaici e le maioliche.
Le luci di Venezia facevano a gara con le stelle del firmamento.

Da qui alle luci a gas il passo fu, abbastanza, breve.
Assecondò quello della nascita delle raffinerie e dei gasometri.
La luce iniziò ad essere venduta, come il pane e i tessuti, e ovunque c’era qualcuno disposto a pagare per quella fiammella effimera e tremolante.
L’illuminazione dalle piazze presto entrò nelle botteghe e nelle case, nei vicoli stretti e angusti, al limitare dei moli. Dentro eleganti lampade di ghisa e vetro.

Infine, fu la corrente elettrica a portare il chiarore nel buio, nel 1927, quella che tutti oggi conosciamo e diamo per scontata.
Che ci permette di svolgere tantissime attività dopo il tramonto, fino a notte fonda.
Per ospitarla, nelle vie principali di Venezia, sono stati pensati lampioni di vetro rosa.


Una città in cui non è facile mantenere il senso dell’orientamento, dove le strade sono fatte di acqua e le vie camminabili la devono aggirare e scavalcare.
La ha raggiunta con un treno regionale, che lento ha attraversato confini immobili, prima che il giro di vite dei divieti si facesse troppo stringente.
Appena in tempo.

Venezia, al contrario di come solitamente appare, è svuotata, per la paura del contagio.
Mancano i turisti, gli avventori dei bar, i negozianti ed i gondolieri.
E’ silenziosa.

Se ne possono attraversare gli spazi in un’atmosfera sospesa, una solitudine meritata.
Seguendo l’istinto a perdersi, come unica traccia l’incrocio dei canali, che confondono chi non è abituato alle righe che disegnano.
Lasciandosi sorprendere dall’essersi smarriti, e da quello che così si riesce a trovare.

Sul basolato rimane qualche pozzanghera, ricordo dell’ultima acqua alta.
I lampioni rosa sono spenti, ma brillano.
In un tiepido sole, temerario.


A Peggy Guggenheim,
che in un’epoca d’oro aveva l’ardire

di tuffarsi nelle acque del Canal Grande direttamente dal
parapetto del Palazzo Venier dei Leoni.
Il palazzo che non c’è.

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