Quando si ammette di amare gli Appennini, la maggior parte degli interlocutori rispondono con “Ma hai presente le Dolomiti?“, oppure con “Ma sei mai stato sulle Alpi?“, a cui di solito non si argomenta per controbattere, perchè di fronte a certi colossi geologici gli Appennini restano umili, e chi li ama e li vive, mostra il medesimo temperamento.
Mentre, in inverno, i passi calpestano le foglie secche non ancora coperte dalle neve, e la mente vaga tra i fusti degli alberi spogli, si capisce che sì, effettivamente è vero, il confronto con i complessi alpini è difficile da reggere, ma è vero anche il contrario.
Per cui l’unica risposta che infine si dovrebbe dare ai commenti precedenti è “Ho capito, ma vuoi mettere gli Appennini?“.
Per prima cosa: la luce.
In qualsiasi stagione li si approcci, la luce resta incredibilmente unica. Dall’alba al tramonto regala riflessi ambrati e caldi, fa scintillare le pendici dei monti senza mai essere accecante o invadente.
Il mattino presto o la sera, il sole filtra dalle foglie degli alberi, disegnando arcobaleni che il viandante potrà seguire in cerca di antichi tesori.
L’autunno arancione e accogliente, l’inverno di malinconici altofusti scuri, la primavera verdissima di vita nuova e l’estate gialla e bruciata, l’aria ricolma del frinire delle cicale. L’Appennino permette di godere di un’infinità di colori, senza mai doversi spostare troppo.
Quando, invece, la giornata non è limpida, la nebbia tipica del fronte centrale della Penisola intrappola i raggi del sole, rifrangendoli attraverso migliaia di goccioline, disperdendo nel panorama un’aura incantata.
Poi ci sono le sue genti, abituate a farcela con poco, a sopravvivere nonostante la terra sia sempre più avara di frutti e i turisti preferiscano le mete più blasonate. Ormai, sulle vette, anche l’inverno è parco di neve e gli impianti sciistici, un tempo le vere stelle della zona, restano fermi.
Ma nonostante questo, scavando sotto la corteccia del guscio indurito dei montanari si trova ancora ospitalità, l’accoglienza dei focolai sui quali scoppiettano le castagne, i pani abbrustoliti da condividere attorno a un tavolo, accompagnati da formaggi garbati e narrazioni.
Le leggende che quelle stesse genti ancora ricordano, le cui origini sono perdute in epoche lontane, dove i boschi fornivano riparo a chi li curava e nascondiglio ai briganti.
Ma i racconti dei popoli dell’Appennino conservano le loro radici anche all’interno della Storia, quella con la “esse” maiuscola, che ha toccato questi luoghi più e più volte. Che li ha mutati, plasmati, resi quello che sono nel susseguirsi di secoli di avvicendamenti.
La si ritrova nelle strade di mezzacosta e di crinale, un tempo unica via di comunicazione tra un lato e l’altro di queste montagne. Costruite lontano dalle valli, allora infestate di malviventi. La si vede ancora, nitida, nei casoni nel bosco, nelle costruzioni di pietra, nelle ghiacciaie, nei borghi arroccati, nei terrazzamenti dei campi coltivati. Nei mulini ad acqua, nei ponti a schiena d’asino, nella vita brulicante lungo i fiumi.
L’Appennino regala a chi passa di lì vette morbide, con ampi prati sulla cima, grazie alle altezze limitate. Ma anche cime più erte e rocciose, stalattiti di roccia che si lanciano verso l’alto.
Può essere meta per escursionisti, grazie a collane di sentieri che permettono di compiere escursioni differenziate per durata e intensità, attraversando intere regioni in pochi giorni, seguendo il crinale morbido, oppure accumulando dislivello collegando le cime.
Ma anche di chi la montagna la interpreta in verticale, trovando una nuova sfida negli speroni di roccia sedimentaria, affiorati grazie alle spinte orogenetiche ancora abbastanza vicine e lasciati nudi dalla vegetazione.
E di chi, anche in inverno, ama muoversi su terreni immobili, i confini arrotondati dalla neve o scheggiati dal ghiaccio, le distanze impercettibili, le dimensioni tradizionali dilatate.
Una terra di contrasti.
Bellissimi.

Prima o poi smetterò di scrivere di Appennini.
Ma per ora, l’esigenza è questa.