La via (non) più breve – Bologna-Mare, parte terza

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Casola in Lunigiana – Marina di Pietrasanta

102 km, D+ 5939 m

Sei giorni: il primo per lasciarsi alle spalle la valle e raggiungere, finalmente, le prime vette Apuane; l’ultimo per ridiscenderle fino ad immergere i piedi nel mare.
Sei giorni di salite ripide, scalate spesso con le mani a terra e il fiato corto. Sei giorni di nuove conoscenze e vecchi amici.
Sei giorni di Storia da ricercare lungo i sentieri e nei vicoli di borghi quasi completamente abbandonati.
Sei giorni di bianca maestosità violata.

Cava, una delle tante.

Partono da Casola mentre il paese è ancora deserto, e seguendo la ferrovia arrivano a Pieve San Lorenzo, da cui, superato il fiume, imboccano il sentiero verso Vagli, che gli regala il primo serio dislivello di giornata, immersi in un caldo umido praticamente sconosciuto a qualsiasi altra latitudine.
La quota guadagnata è ben presto perduta nella discesa su Equi Terme, paesino termale della valle adiacente. Qui si trova una delle principali grotte carsiche della Toscana, la Grotta del Vento, e una piscina di acqua troppo verde per credere seriamente sia un effetto voluto.
Subito oltre un ponte bailey si stacca il sentiero 39, che risale nel bosco verso Aiola e Vinca. In comune tutti questi borghi incastonati nella roccia che attraversano, hanno un’austera resistenza all’ammodernamento della vita dei suoi abitanti, e l’essere stati, loro malgrado, protagonisti di stragi nazifasciste durante il secondo conflitto mondiale.
Sarà forse la densità storica di quei luoghi che gli appesantisce il cuore, sarà forse il caldo che ne annebbia la mente, ma, a metà percorso, perdono la traccia, attratti dalla promessa di un castello, e con lei parecchio tempo cercando di ritrovarla, fino a quando non accettano di tornare sui propri passi e ricominciare da capo. L’Arrivo a Vinca li coglie assetati, stremati dal grande caldo dell’ora mediana ed affamati. Per fortuna il piccolo alimentari al centro del paese, proprio accanto alla fontana, sembra aperto. La proprietaria sta, in realtà, pranzando con la famiglia nella stanza sul retro, ma torna di buon grado al bancone per servigli una Coca-Cola e qualcosa da mangiare.
Risalgono il paese, in una via crucis della memoria: sui muri delle case numerosi pannelli raccontano l’eccidio avvenuto, avvalendosi della voce dei sopravvissuti.
Si lasciano il centro abitato alle spalle, imboccando l’ultima salita di giornata, prima nel bosco e poi senza difese nel sole bollente, affrontando un biscione polveroso quasi verticale, che li fa arrivare a quota 2000 D+ in questa sola giornata. Lì per lì è, chiaramente, faticoso, ma col senno di poi apprezzano l’eroicità che così tanto dislivello si porta appresso. Certo è che la salita è lunga e monotona, tanto che ad un certo punto credono di avere le allucinazioni, ed all’arrivo a Foce di Giovo non possono concedersi che una breve pausa, perchè senza nessun preavviso nuvole nere si avvicinano minacciose. E non hanno voglia, anche, di bagnarsi.
Procedono veloci verso il Rifugio Orto di Donna, e le sue docce calde, i passi da caprette sul marmo bianco, il dolore immenso nel petto per il dover circumnavigare la cava che distrugge la montagna per permettere a quel marmo di raggiunge tutto il mondo.

Ultima salita, verso Foce di Giovo.

Il secondo giorno nella cava ci devono camminare: il sentiero non è altro che marmo bianchissimo, scavato e sezionato a farne una strada di collegamento.
Tutto attorno moltissimi blocchi di bianco iridescente, estratti, scartati e usati per delimitare la carreggiata, o direttamente scaricati lungo i pendii, non si sa se per errore o per dolo. Tonnellate di metri cubi di montagna sprecate e perdute per sempre, mentre i tir continuano incessanti ad entrare nella montagna e uscirne carichi del loro bottino, dopo il fragore delle esplosioni.
Salgono il fianco sdrucciolato di Monte Tambura, aiutandosi con le mani per superarne gli scaloni, lo ridiscendono e seguendo l’anacronistica Via Vandelli arrivano in poco più di tre ore al Rifugio Nello Conti, incastonato nella roccia e da lei al tempo stesso protetto e minacciato.
La tappa in sè è brevissima, tanto che all’inizio rimuginano sulla possibilità di accorparla a quella dell’indomani, ma poi decidono di approffitarne per riposarsi e respirare indisturbati il paesaggio circostante.
Non potevano prendere decisione migliore!
Ben presto scoprono che con Giulia e Michele, i due rifugisti, hanno ben più di un’affinità: il loro viaggio sulla Linea Gotica di quattro anni prima iniziò proprio da Cinquale, con la benedizione dell’ANPI di Montignoso, di fronte alla quale sede Giulia e Michele si sono sposati la primavera precedente. Inoltre, solo pochi giorni prima, Piercarlo, il presidente della sezione, gli aveva raccontato di quel primo viaggio. Con anche Manuel, il terzo ad essersi imbarcato nella gestione non semplice del rifugio, ne nasce un bellissimo pomeriggio di condivisione di storie resistenti, di ideali da difendere e di utopie.
Torneranno a Bologna con il cuore ricolmo di nuova speranza, tre nuovi amici nati da una casualità, e una bottiglia di Amaro Partigiano, che custodiranno gelosamente.

Rifugio Nello Conti.

Il terzo giorno partono a ritroso, risalendo la Via Vandelli fino a Passo Tambura, da cui discendono fino alla base della Valle di Arnetola, dove la strada costruita dalla TODT per rifornire la Linea Gotica nella zona di Monte Macina e Monte Fiocca, dall’andamento regolare e perfettamente conservata, li conduce verso a Passo Sella, in una piacevole passeggiata all’interno di un boschetto. Quasi al suo termine esce dal bosco e in pochi tornanti li porta al passo, contornato da molte aspre cime: il Fiocca e il Sumbra, Monte Macina e la Schiena dell’Asino. In basso il paese di Arni, e nel mezzo una orribile strada marmifera.
Vorrebbero provare a seguire il sentiero 150 fino alle Gobbie, per tornare a pranzo lì dove si rifocillarono dopo la terribile prima espienza sul sentiero 33, ma è davvero troppo esposto, richiede di posizionare il piede troppo laterale perchè lei si senta sicura, e non resta altro da fare che tornare indietro e scendere al paese dalla marmifera, riempiendosi i polmoni di marmittola e affaticandosi gli occhi per il troppo chiarore.
Il Rifugio Puliti è poco sopra il paese, ed è gestito da Virginia ed Ettore, ospitali e amichevoli, che li coccoleranno e gli faranno passare davvero una serata lieta. Per non oziare tutto il pomeriggio, però, decidono di ritornare al sentiero 33, lungo il versante morbido e rassicurante che li ha raccolti dopo il grande spavento di quattro anni prima, fino a Passo degli Uncini. Ritrovano per cui, in senso contrario alla volta precedente, i luoghi attraversati dai loro primi passi apuani, tenendosi forte per mano perchè non sanno quali parole usare per esprimere quello che provano, non sanno nemmeno se quelle parole esistono. Una volta al passo si siedono alla palina ai piedi di Monte Altissimo, ricordando quel primo viaggio, saltando da un evento all’altro, facendosi promesse di nuovi ritorni, manghiucchiando, nel frattempo, gallette e formaggio.

Ritorno da Passo degli Uncini.

Il quarto giorno, riprendono una marmifera, che costeggia la cava Henraux (scopriranno poi essere stato un personaggio illuminato per quanto riguarda la sicurezza e i diritti dei lavoratori), fino a che il sentiero non piega a sinistra e iniziano a risalire. In basso nella valle, il mare. Non avevano ancora avuto la possibilità di vederlo, perchè per quanto andassero in alto c’era sempre un ostacolo più o meno piccolo a frapporsi tra loro. E’ sempre blu, è sempre scintillante.
Mentre camminano nell’erba alta e bruciata, si trovano nuovamente immersi nelle atmosfere di settantacinque anni prima: il versante è completamente puntellato di postazioni di attacco e di osservazione per la strada sottostante, incuneata nell’ombra della valle.
Ben presto tornano sulla strada asfaltata, completamente parcheggiata ai due lati da scatolette metalliche che vomitano chiassosi turisti della domenica. Il silenzio nel quale spesso camminano viene sostituito da grida e schiamazzi, e monta in loro una profonda irritazione: la montagna è di tutti, questo lo sanno, ma sarebbe bello che quei tutti abbassassero almeno il volume della voce per mostrare alla montagna il rispetto che merita. Ma, effettivamente, in un luogo dove l’uomo alla montagna mangia le vette a colpi di esplosivo e ne impoverisce gli antri, il rispetto proprio non sta di casa.
Giungono al Rifugio Del Freo, infastititi e stanchi non dalla camminata ma dal confronto con il genere umano. Per fortuna, il sole abbandona presto la Foce di Mosceta, il profilo incombente della Pania della Croce che domina la valle si fa scuro, l’aria si fa pungente ed i turisti scappano al caldo di quote più basse.
Resta solo Piero, un amico conosciuto un paio di anni prima durante un’escursione resistente su Monte Folgorito, con cui aggiornarsi di questi due anni di viaggi e di vita, davanti a qualche amaro.

Rifugio del Freo e Pania della Croce.

La Pania della Croce: il primo amore apuano non si scorda mai.
Si potrebbe dire, guardando da fuori, che tutto questo viaggio da Bologna al Mar Tirreno sia stato organizzato in funzione della possibilità di tornare a scalare la Pania. Sarebbe riduttivo, certo, il desiderio di partire si porta dietro molte altre motivazioni, ma al contempo questa montagna immensa ha giocato un ruolo da protagonista nel decidere di lanciarsi nella traversata delle Alpi Apuane. La hanno conosciuta quattro anni prima, in una giornata uggiosa e fredda, alla terza tappa del loro coast to coast. E da allora le hanno sempre riservato un amore reverenziale quando parlano di quella salita e di quella vetta non vista per via della fitta nebbia che li ha avvolti a pochi metri dalla cima. Oggi sarà la loro rivincita nei confronti del meteo.
La scalata è diversa da come la ricordavano, trovano un sentiero leggermente mutato con gli anni, mentre il sole li insegue con i suoi raggi languidi, fino al raggiungimento della vetta, da cui si mostra un panorama ampio, fatto di cime a 360 gradi, gli Appennini di casa sullo sfondo, il mare così vicino che spiccando un salto dalla croce di vetta ci si riuscirebbero a tuffare.
Sostano un po’ sulla cima, per godersi quella riconquista, e poi scendono dal versante opposto, tra le rocce franose, fino al bivio per il Rifugio Rossi, da cui imboccano il sentiero a destra, verso il Passo degli Uomini della Neve, con le vecchie ghiacciaie. Si buttano a capofitto per il pendio, girandosi spesso a ricontrollare il profilo della Pania, che si fa più erta man mano che si allontano da lei.
Seguendo il crinale più basso, giungono sul dorso del Monte Forato, con le sue storie di solstizi e falò, la finestra carsica a incorniciare perfettamente il mare giù in basso. Il Procinto, in lontananza, li attira e a sè.
La tappa si conclude al Rifugio Forte dei Marmi, gestito da Arianna, un altro dei luoghi apuani in cui possono sentirsi a casa.
Anche per quella sera avranno due amici con cui condividere il pasto ristoratore e i racconti: Roveno e Chatuscia, saliti fino quassù nonostante il poco preavviso.

La Pania della Croce, vetta.

La discesa verso il mare.
Fanno colazione con una calma innaturale, non vogliono partire, perchè il viaggio sta per terminare e l’indomani dovranno raccogliere i loro zaini, carichi di vestiti sporchi ed esperienze, e in una maratona di mezzi pubblici rientrare a Bologna. I finali sono sempre malinconici, e questo in particolare forse lo è un po’ di più di molti altri: non si sentono pronti a rientrare e rinuciare, così presto, ai boschi ed alle giornate scandite dal ritmo dei passi.
Si incamminano, su consiglio di Arianna, lungo un morbido sentiero a mezzacosta, che sale e scende, si insinua tra le spaccature di roccia, e li conduce a Sant’Anna di Stazzema, una settimana prima dell’anniversario dell’eccidio.
Poco prima di giungere al paese il loro incedere si fa più lento, ricadono nel silenzio, il dolore delle vittime cola denso dai luoghi della momoria, dall’ossario, dalle targhe commemorative, ma anche dagli alberi, dalle pendici delle montagne. Allaga le scoline e il fondo della valle.
Passano qualche ora a Sant’Anna, ore di cui non riparleranno più, e di cui non possono scrivere. Non sanno scrivere.

L’ossario delle vittime di Sant’Anna di Stazzema.

L’ultima discesa, tra miniere finalmente non marmifere. Sfiorano appena il paese natale di Giosuè Carducci, ed imboccano un lungo viale nel sole fino alla spiaggia, dove camminano con gli scarponcini e gli zaini in spalla, incuranti della sabbia e dei bagnanti.
Con i piedi sul bagnoasciuga si girano, a guardare alle loro spalle le Apuane che hanno attraversato nei cinque giorni precedenti, non ostili ma orgogliose del loro essere spigoloso.

Torneremo, è una promessa.

Marina di Pietrasanta, spiaggia.





Grazie a Stefania e sua figlia per l’ospitalità e le chiacchiere,
ai ragazzi di Como ed all’escursionista inglese che ha smarrito lo zaino per la splendida cena condivisa.
Grazie a Giulia, Michele e Manuel, per l’incontro casuale, il bellissimo pomeriggio passato assieme e gli ideali condivisi.
Grazie a Virginia ed Ettore, ci mancherete molto.

Grazie a Piero, per l’esserci casualmente ritrovati.
Grazie ad Arianna, per la cura.
Grazie a Roveno e Chatuscia, per averci raggiunto e rinnovato una bella esperienza di amicizia.

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