Scrivere podcast per la rubrica LA VIA DI FUGA di Connessioni podcast la diverte molto.
Le permette di trovare un nuovo modo di scrivere, più dialogato, dove i punto a capo che tanto le piacciono devono essere enfatizzati dalla modulazione della voce, non più solo visivamente.
E’ una sfida, per lei, che viene giocata su due campi: cambiare modo di scrivere e registrare la propria voce su nastro magnetico. Voce che non le è mai piaciuta particolarmente, che le sembra sempre troppo nasale, a tratti acuta a tratti fastidiosa. Ma dopo diverse puntate, inizia anche ad apprezzare il riascoltarsi, trovando sfumature prodotte dalle sue corde vocali che non le sembra ci siano mai state.
La nuova puntata, in uscita mercoledì 7 luglio, le è costata molta fatica. La ha scritta, cancellata, riscritta, limata ancora.
E’ strano, perché gli episodi precedenti le erano venuti spontanei, facili. Si erano praticamente scritti da soli.
Ma questa volta le sembra di essersi data un obiettivo troppo alto, di essersi spinta su un campo che non è propriamente il suo, dove non è completamente padrona dell’argomento, e questo ha mosso le sue insicurezze.
Però ha insistito, ha cercato e letto, ha chiesto qualche piccolo aiuto, ed infine ha registrato la puntata una domenica mattina di sorprendente fresco per la città già arroventata da settimane, a gambe incrociate sul letto sfatto.
Ed ha deciso che questa puntata, oltre a poterla ascoltare dalla sua voce, sarà anche disponibile in forma scritta, in un posto sul blog. Perché anche chi non ama i podcast possa scoprire quello che nell’ultimo mese ha scoperto anche lei, e che le ha lasciato un certa fascinazione.
Quindi, qui sotto, si trova integralmente il testo del podcast, che invece è disponibile qui.
A confine tra la Romagna e la Toscana è situata una zona boscosa la cui storia inizia in epoca antica, al tempo dei primi insediamenti etruschi.
L’intera zona prende il nome di Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, istituito nel 1993, e tocca le provincie di Forlì-Cesena, Arezzo e Firenze. Dal 2017 la Commissione UNESCO ha inserito una parte degli oltre 36 mila ettari del parco, la Riserva integrale di Sasso Fratino, e le faggete secolari comprese nel perimetro del parco, nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
Nel corso dei millenni questa zona è stata attraversata da un filo conduttore che ne ha mantenuta alta l’importanza: la sacralità dei luoghi. Questo le ha permesso anche di guadagnarsi l’appellativo di Foreste Sacre.
Infatti, dopo essere stata legata al culto delle divinità per le popolazioni etrusche, in epoca medioevale ha visto un ritorno alla spiritualità con la fondazione della comunità monastica dei camaldolesi ad opera di San Romualdo (datata tra il 1012 e il 1025) e con il ritiro di San Francesco d’Assisi presso il luogo in cui oggi sorge il Santuario di La Verna all’inizio del XIII secolo.
Immaginiamoci di essere nel 1000 a.C., in Etruria, una regione storico-geografica collocata nell’abbraccio del Fiume Arno, che ne rappresentava il confine nord-ovest, e del Fiume Tevere, che ne delimitava il lato sud-orientale. L’altro limite di confine era il Mar Tirreno, in cui entrambi i corsi d’acqua sfociano.
Le due sorgenti, Capo D’Arno e le Vene del Tevere, sono separate, oggi, esattamente da 34 chilometri di terra, in linea d’aria, ma al momento della massima espansione della civiltà etrusca erano unite tramite una fitta rete di canali, che portavano le popolazioni a credere che il Fiume Arno e il Fiume Tevere nascessero dalla medesima sorgente, il che conferiva ai torrenti una indubbia particolarità, che a quell’epoca era spesso sinonimo del divino.
Nella manciata di chilometri che separa le sorgenti, inoltre, veniva garantita la viabilità tra l’Etruria toscana e umbra, quella più antica, e l’Etruria padana, nella zona dell’attuale Emilia-Romagna. Non era altro che un valico appenninico, la cui importanza resta poi determinante anche in tutta l’epoca romana e medioevale.
Esattamente qui, a poche centinaia di metri dalla sorgente del Fiume Arno, troviamo il Lago degli Idoli, così chiamato dopo che nel 1838 vi furono casualmente ritrovati numerosi reperti etruschi come monete, punte di frecce, bronzetti, ex-voto, frammenti di ceramica, molti dei quali sono conservati al British Museum di Londra ed al Louvre di Parigi. Questi ritrovamenti attestano come nel VI secolo a.C. questo piccolo bacino a 1380 m s.l.m. fosse luogo di pellegrinaggio delle popolazioni etrusche della zona di Arezzo e Fiesole, di Bologna e Marzabotto, le quali lasciavano le loro offerte per le divinità nel lago situato ai piedi del Monte Falterona, a sua volta ritenuto sacro per la presenza di queste acque e, forse, per via della sua enorme mole che sembra proteggere materna il Casentino.
All’incirca 1500 anni dopo, come accennavo, la spiritualità torna ad essere motivo di raggiungimento di queste foreste.
Infatti, attorno al 1012 giunse fra il Pratomagno e il Monte Falterona, nel cuore delle Foreste Casentinesi, Romualdo, abate più volte dimissionario con la vocazione all’eremitaggio. Qui, in un lembo di terra ricevuto in dono dal vescovo di Arezzo Teobaldo di Canossa (zio della famosa Matilde, mia eroina quando ero una bambina ribelle che studiava un Medioevo pieno di figure maschili) decise di fondare una piccola comunità eremitica. La radura solitaria e amena, sita a 1100 m s.l.m., prendeva il nome di Campus Maldoli (in latino), oggi diventato Camaldoli.
Viene costruito un piccolo oratorio, dedicato a San Salvatore Trasfigurato, e cinque celle. Romualdo interpreta così l’esigenza di una vita in solitudine organizzandola in una struttura di tipo comunitario guidata dalla regola benedettina, che alterna l’orazione solitaria a momenti di condivisione. Con il tempo all’Eremo sono affiancati, circa tre kilometri più in basso, il Monastero, la foresteria e la spezieria, e le celle per i monaci sono aumentate fino al numero di venti man mano che la comunità si allarga.
Per le Foreste Casentinesi, però, la presenza di San Romualdo ha avuto anche un’altra importante conseguenza: infatti, il monaco si rese conto che per poter creare la sua comunità non era necessario solo costruire qualche muro di mattoni e prendere i frutti che i boschi potevano fornire, ma serviva anche rispettarli e prendersene cura. Per questo motivo ha dato vita ad un primitivo “Codice Forestale”, che per cinque secoli è stato tramandato come compendio di norme tra i monaci camaldolesi, fino a diventare nel 1520 la Regola 66, che ci permette di capire come alla base di quella che oggi chiamiamo sostenibilità ambientale ci siano anche aspetti di tipo spirituale. Infatti, la foresta non era considerata solo come spazio fisico in cui vivevano i monaci, ma anche come difesa e custodia della loro solitudine e il luogo in cui nasceva e si alimentava la loro virtù.
L’insieme di queste regole, oggi, è diventata la base per i regolamenti di gestione delle risorse naturali, forestali e agricole nella silvicoltura del nostro Paese. Questo ci permette di capire come già nell’XI secolo per alcuni fosse importante trovare e preservare l’armonia tra l’uomo e la Natura, aspetti a cui non siamo abituati a pensare quando ci immaginiamo la vita nel Medioevo.
Continuando a seguire il filone della spiritualità, al limitare del territorio del parco, circa 25 km a sud-est dell’Eremo di Camaldoli, si trova un altro luogo molto importante in epoca medioevale: La Verna, dove Francesco d’Assisi si recò diverse volte in ritiro in cerca di silenzio a partire dal 1213, quando il Conte Orlando di Chiusi in Casentino, colpito dalle sue predicazioni, gli donò il Monte della Verna. Negli anni successivi sorsero alcune piccole celle e una chiesetta, ma l’impulso decisivo alla creazione del santuario giunto fino a noi avvenne a seguito dell’episodio delle stimmate, nell’estate del 1224.
Anche questo luogo, però, prima dell’arrivo di San Francesco, era già stato interessato dal culto pagano in epoca romana per la dea Laverna, protettrice dei ladri e degli impostori. Proprio nella zona circostante questo rilievo, conosciuto geograficamente come Monte Penna, con un altitudine di 1283 m s.l.m., si trova un bosco folto, ricco di orridi e caverne, profondi burroni, dove i malviventi trovavano protezione dai gendarmi e nascondiglio per depredare i viandanti.
Quale luogo migliore per rendere lode alla loro protettrice divina?
Allontanandoci dall’anno 1000, nei secoli successivi, le affascinanti credenze che avvolgevano le Foreste Casentinesi sono andate scemando, ma il territorio ha acquisito altri valori, tra i quali spiccano quelli economici, legati all’enorme fornitura di legname al Granducato di Toscana, che lo ha utilizzato per molte costruzioni, dalle flotte navali di Pisa e Livorno, all’Opera del Duomo di Firenze. Questo rese la zona densamente abitata, il che portò alla costruzione di piccoli insediamenti urbani a puntellare il paesaggio. Il massimo picco demografico lo si ebbe nell’Ottocento, e l’attività dell’uomo ha qualificato sensibili modifiche all’assetto del paesaggio montano: ad eccezione di pochi lembi di foresta collocati in posizioni difficili, l’agricoltura, la pastorizia e la selvicoltura caratterizzavano gli ambienti. I primi decenni del Novecento, inoltre, furono anche interessati dal fenomeno dei rimboschimenti voluti dello Stato, che introdussero specie vegetali non autoctone, come il Pino nero, che erano capaci di fornire un quantitativo maggiore di legname e di diversificarne la qualità in funzione dell’utilizzo. Però, chi perpetrò queste politiche non immaginava nemmeno lontanamente che, cinquanta anni dopo, a seguito del secondo conflitto mondiale, il cosiddetto boom economico avrebbe strappato gli abitanti da queste zone per consegnarle alla promessa di un maggior benessere nelle città: dal 1950 al 1970 la montagna si spopolò quasi completamente a seguito del fenomeno di migrazione massiva che vide gli ex contadini e silvicultori diventare operai di fabbrica. Chissà, con il senno di poi, quanti rifarebbero la stessa scelta.
Di certo, le Foreste ne hanno giovato, perché si sono riappropriate del territorio, tornando a prosperare libere, limitandosi ad ospitare tra il loro fitto intrico di sentieri escursionisti ed avventurosi in cerca della vita all’aria aperta o della wilderness della loro riserva integrale.
Oggi, il Parco è infatti meta di molti viandanti, e grazie alla fitta rete di sentieri mantenuta dall’ente parco e dal Club Alpino Italiano lo si può esplorare senza rischio di smarrirsi.
Per ricongiungere tra loro i luoghi di contemplazione, pagana o meno, appena descritti, è stato creato un sentiero dall’evocativo nome di Sentiero delle Foreste Sacre, che parte da Lago di Ponte di Tredozio e giunge in cinque o sette tappe – a seconda dell’allenamento di chi lo percorre – fino al Santuario di La Verna, guidando il visitatore attraverso i fruscii e gli scricchiolii delle faggete vetuste, fornendogli una chiave di lettura che permetta di trovare risposte, per ciascuno le proprie e personali, al perché, questi luoghi, sono stati storicamente così interessati dal richiamo per il divino e il romitaggio.
Ve ne delineo brevemente l’itinerario, cosicchè possiate seguirlo con il dito sulla mappa, e decidere come e quando partire.
La prima tappa, che parte appunto da Lago di Ponte, nella parte nord del Parco, conduce a San Benedetto in Alpe, paesino montano caratterizzato a sua volta da un’abbazia che si pensa essere sempre della prima parte del XI secolo e dall’accesso verso un altro luogo spettacolare: la cascata dell’Acquacheta, ricordata anche da Dante Alighieri nella Divina Commedia.
Da qui, si sale a prendere il crinale puntellato di pietre miliari che un tempo era il confine tra la Romagna e la Toscana – lungo l’Alta Via dei Parchi di cui vi ho già parlato nella seconda puntata di questa rubrica, si raggiunge Castagno d’Andrea, e successivamente, passando per il Lago degli Idoli sito in località Ciliegeta e il Monte Falterona, si continua a percorrere la spina dorsale in quota e si giunge all’Eremo di Camaldoli. Eventualmente, questa tappa può essere spezzata in due più brevi.
Il giorno successivo, il quarto, da Camaldoli si raggiunge sempre seguendo l’Alta Via, Badia Prataglia, da cui, addentrandosi verso il limitare meridionale del territorio del Parco delle Foreste Casentinesi, attraverso comodi e ampi boschi si raggiunge il Santuario di La Verna. Anche questa ultima tappa può essere divisa in due più brevi.
Non solo questo sentiero permette di ricongiungere da Nord a Sud i principali nuclei della spiritualità di cui vi ho raccontato, ma permette anche di attraversare, quasi in linea retta, questo territorio così ameno e caratteristico, camminando su sentieri comodi e ampi, avvolti nell’ombra dei boschi, che proteggono tanto dal sole quanto dalla pioggia. In questo secondo caso, inoltre, le foglie dei faggi diffondono le piccole gocce d’acqua, che a loro volta scompongono la luce, la quale intensifica i verdi e i marroni amplificando la magia di questi boschi.
E’ impossibile, a mio parere, restare indifferenti al richiamo verso l’introspezione e il silenzio che le Foreste suggeriscono, un passo dopo l’altro.
A Fabio,
per l’editing senza pietà.