Mi sono presa tre giorni.
Senza pensare troppo alla forma fisica inadeguata per le mie aspettative.
Senza rimuginare sul lavoro che in questo modo non sto portando avanti e alle scadenze che vorrei rispettate.
Mi sono presa tre giorni.
Per alzarmi presto, e partire.
Per indossare solo magliette di cotone e scarpe da roccia.
Per lasciare lo zaino pronto accanto alla porta di ingresso.
Mi sono presa tre giorni.
Per salire in montagna, nelle prime ore del mattino.
Per avere attorno come unici suoni quelli della natura, prima che apra la seggiovia.
Per fare colazione solo una volta sulla vetta, ché a stomaco vuoto affronto meglio la salita.
Per essere di ritorno prima dell’arrivo dei barbari*.
Mi sono presa tre giorni.
Per non preoccuparmi di nulla se non cucinare e mangiare crostate, iniziare e concludere un libro dopo l’altro, fare commissioni decisamente rimandabili.
Per muovermi quasi esclusivamente a piedi.
Per fare un numero incalcolabile di pipì nei boschi, a qualsiasi altitudine.
Mi sono presa tre giorni.
Per sudare e non preoccuparmi di fare la doccia come prima cosa al rientro.
Per stendere le lenzuola al vento e guardarle danzare.
Per godermi il panorama che muta con lo scorrere delle ore del giorno.
Mi sono presa tre giorni.
Per passare un po’ di tempo in un abbraccio.
Per condividere le salite e l’aria fresca.
Per ascoltare il ronzio dei calabroni fino a che non prende il sopravvento la paura mi possano attaccare.
Per respirare l’umido del bosco e farmi scaldare la pelle dal sole del crinale.
Mi sono presa tre giorni.
Per riempirmi gli occhi di bello e le orecchie di vento.
Per salutare sconosciuti lungo i sentieri, ed essere contenta quando a rispondere sono anche i bambini.
Per fare le discese in fretta, fuggendole.
Per raccogliere legnetti, pietre e tutto ciò si possa seccare.
Mi sono presa tre giorni.
Per ricordare che il mio corpo sta meglio, quando deve solo pensare alla fatica e a dove mettere i piedi.
Per ricordare che anche ciò che sembra immobile, “eppur si muove“**.
*definizione tratta dal saggio I barbari, di Alessandro Baricco (Feltrinelli Editore).
“Il cuore della faccenda è lì, il resto è solo una collezione di conseguenze: la superficie al posto della profondità, la velocità al posto della riflessione, le sequenze al posto dell’analisi, il surf al posto dell’approfondimento, la comunicazione al posto dell’espressione, il multitasking al posto della specializzazione, il piacere al posto della fatica. Uno smantellamento sistematico di tutto l’armamentario mentale ereditato dalla cultura ottocentesca, romantica e borghese.”
[…]
“Nella grande corrente, mettere in salvo ciò che ci è caro. È un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione. Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo.”
**frase pronunciata da Galileo Galilei, alludendo al moto terrestre attorno al Sole, dopo esser stato costretto all’abiura.