Prologo.
Una campana, piccola e lontana, batte i quarti d’ora. Per tutta la notte.
Escono dal paese da Porta Pugliese, dirigendosi verso il ponte sull’Alcantara, che risaliranno verso la sorgente, dove si trasformerà da placido fiume dall’ampio letto a vivace torrente.
Randazzo, dai vicoli elegantemente neri di lava, dorme.
Dietro di loro, la Grande Montagna si è già svegliata.
Entrano nel Parco dei Nebrodi, lo risalgono verso nord e ne escono a Floresta.
Da domani rientreranno nei territori del Parco, e lo attraverseranno quasi in linea retta.
Saranno necessari tre giorni per uscirne, e cento chilometri a piedi.
Giorno uno.
L’assenza dell’acqua.
Serafino “Linguargentina” non tace mai. Nemmeno alle sei del mattino.
Gli racconta di come, nei secoli passati, la Dorsale dei Nebrodi fosse la via di transumanza che vedeva le greggi spostarsi da Messina a Palermo, giungendo dai Peloritani ed approdando, poi, sulle Madonie.
Gli racconta, anche, di come non piova da tre mesi.
Rientrano nel Parco a Portella Mitta, mentre il Sentiero Italia, loro guida per quasi tutta la Dorsale, ricalca una larga pista per jeep che si snoda tra i pascoli, in salita, per raggiungere il vasto altopiano che costituisce la parte più alta della catena dei Nebrodi.
Le tante mucche che qui abitano fanno per un attimo dimenticare di trovarsi in Sicilia. L’aridità intorno, però, rinfresca la memoria.
La strada scende brevemente, per poi riprendere a salire ancora più impietosa. Non incontrano praticamente nessuno.
Entrano in un bosco molto simile a quelli che possono trovare sugli Appennini ad un passo da casa, a conferma che le catene montuose dell’Isola sono indissolubilmente legate a quelle peninsulari.
Appena la Dorsale li conduce nel punto più alto, gli alberi si fanno radi e il panorama si apre: poco lontano possono scorgere il mare blu, puntellato dai triangoli vulcanici delle Isole Eolie.
I torrenti montani che incontrano sono ridotti a meri rivoli di acqua stagnante assediati dagli insetti. Iniziano a preoccuparsi per l’assenza di liquidi, cominciano a mostrare parsimonia nell’approccio alle borracce che conservano al sicuro negli zaini.
Dopo i primi venti chilometri di giornata, gli si mostrano, da dietro una curva, cinque ragazzi, che procedono in direzione opposta alla loro. Portano sulle spalle zaini pesanti, tende e sacco a pelo in vista. Si fermano a salutare. Uno, che dice di chiamarsi Max e fuma una sigaretta dietro l’altra, chiacchiera volentieri di montagne e Sicilia.
Gli comunicano che alla prossima fontana mancano altri dieci chilometri, almeno. Salutano, e con gli occhi pieni di speranza si rimettono in cammino.
In una breve sgambata giungono al Lago Biviere, contornato da recinzioni, e gli ultimi cinque chilometri si mostrano insormontabili: esposti al sole implacabile del primo pomeriggio, polverosi, nuovamente in salita.
A poche centinaia di metri da Lago Maulazzo notano un rivolo d’acqua scorrere nella loro direzione e come un miraggio appare la fontana.
La raggiungono quasi correndo, si liberano veloci degli zaini e bevono a grandi sorsi, si sciacquano il viso e la braccia. Una signora li osserva da lontano, con un mezzo sorriso sul viso.
Si accampano nei pressi, godendosi un sole sempre più tenue fino al tramonto, mentre un topolino di campagna esplora un cespuglio poco lontano.
Giorno due.
Il rapimento.
Una scrofa nera e una volpe. Si aggirano attorno alla loro tenda verde, in cerca della colazione.
Partono presto, un po’ spaventati dal non sapere come si prospetterà la giornata. Sicuramente calda.
Un sentiero un po’ rognoso, di pietre caotiche e ghiaia grossolana, li fa procedere più lentamente del previsto e sforza le giunture. Tutto intorno, gli alberi sprigionano un odore acre e pungente, che si attacca alle loro magliette, gli si radica nelle narici e li fa starnutire.
Escono dal bosco a mezzogiorno, la luce accecante li schiaccia nella polvere, la strada riprende beffardamente a salire. Nessuna ombra. Nessuna goccia d’acqua.
Un cartello dei CAI invoca languidamente una località denominata Sorgente Nocita e decidono di raggiungerla, per poter fare una pausa sperando in ombrose fronde e nella dolce musica di un ruscello.
Nel posto indicato non c’è niente, se non un fontanile inesorabilmente secco. Ma delle voci che giungono da poco lontano li attraggono, ed appena lasciano il sentiero scoprono un’ampia radura riparata, e una fontana da cui tracima gelida acqua limpida. All’interno del bacile, bibite e bottiglie di tutti i tipi. A poche decine di metri, cinquanta persone li osservano, incuriositi.
Uno di loro, li invita a partecipare al banchetto, è un anniversario di matrimonio.
“Mangiate qualcosa con noi.”
“Bevete qualcosa con noi.”
“Sedetevi, raccontateci.”
Volti sorridenti, mani aperte in segno di pace e voci curiose li tentano. Si fermano.
Volano via così tre ore, in un soffio. Tra i fumi della griglia, il pane spezzato e condiviso, i bicchieri di vino sempre pieni, blasfeme rievocazioni del sommo rito d’amore, canti e storie in dialetto stretto e musicale, di cui afferrano solo poche parole.
“Riferitelo questo quando tornate su, quando tornate a Bologna, noi siciliani siamo così, siamo gente umile, non si può fare di tutta l’erba un fascio.”
Alla fine scappano dalla distrazione e dal divertimento, camminano, si accampano.
Dormono.
Giorno tre.
Il grande caldo.
Bosco della Tassita. Un altare votivo per San Giovanni Gualberto, patrono dei forestali.
Un sentiero ad anello, ben organizzato e ordinato. Un viale di scalini bassi, con ai lati strutture di pietra antropomorfe, il versante nord coperto di muschio.
Quando il sentiero piega per chiudere l’anello, sulla sinistra una scala di legno permette di scavalcare la recinzione. Oltre di essa il Sentiero Italia continua, ed in una manciata di chilometri dovrebbe portarli all’uscita del parco.
Ma i segnali bianco-rossi non vengono ripassati da anni, sono ricoperti dalla vegetazione, la traccia del sentiero si confonde con le rotte degli animali selvatici.
Si perdono, tornano indietro, ricominciano, si perdono ancora.
Dopo ore di girovagare nervoso, stremati di una fatica più mentale che fisica e senza essersi praticamente mossi, si arrendono, e ritornano al punto di partenza, dove per tutta la notte la tenda li ha protetti nel riposo.
Tre ore buttate, e l’unica alternativa a quell’intrico verde è la statale, che li condurrà a Capizzi, da cui poi precederanno per Mistretta, meta odierna.
Fahrid si accosta a loro con la sua station wagon mal messa. Li fa salire e li accompagna in paese, dove lavora.
Gli racconta delle origini palestinesi, di come un piccolo paese montano di Sicilia sia la sua casa praticamente da sempre. Gli risparmia due ore di cammino.
Lasciato il paese, seguono una strada bianca, che taglia in diagonale campi aridi. Non esiste vegetazione, se non qualche rovo basso e isolato, soltanto erba secca a perdita d’occhio.
Salgono ancora e ancora, nella polvere, il sole a scaldare le borracce.
Le ombre non sono altro che piccole macchie sotto i loro piedi. Le calpestano, cercando di tenersele attaccate per quel sottile lembo che ancora le lega.
Lei crolla stremata, al risicato riparo di un cespuglio spinoso. Non regge la fatica, piange. Aver perso il sentiero al mattino le ha messo addosso una sensazione di disfatta che non riesce a scrollarsi.
Riposano una decina di minuti, incapaci di mangiare e bevendo l’acqua ormai più che tiepida.
La ripartenza vede ammorbidirsi il saliscendi, e come inviata da un mago gentile, una leggera brezza giunge a solleticarli e ad asciugare il sudore.
Hanno quasi raggiunto la Nazionale, che dovranno seguire per raggiungere il paese. Sulla sinistra, tra l’erba ruvida, una fontana. Dall’acqua limpida e non troppo fredda. Viene voglia di farsi un bagno.
Si sentono finalmente salvi.
La Nazionale scorre via veloce, l’arrivo è in discesa, e la padrona del B&B in cui hanno deciso di pernottare li accoglie sulla porta con una ciotola di frutta fresca.
Quattro ragazzini giocano a pallone sul sagrato della chiesa dedicata a Santa Caterina, incuranti del caldo.
Sulla terrazza la vista spazia dai tetti rossi dell’abitato fino al mare, il vento asciuga le magliette lavate e due birre ghiacciate brindano alla tappa di domani.
Epilogo.
I Nebrodi sono arrivati e sono stati lasciati alle spalle.
Quasi niente è andato come sarebbe dovuto: per la prima volta il caldo si è fatto massiccio, la siccità si è fatta opprimente e spaventosa, i pennacchi di fumo degli incendi che stanno devastando l’Isola visti dall’alto li hanno indotti in oscuri pensieri.
Ma hanno trovato ospitalità e amicizia, immersi in una natura inaspettata sotto il 38° parallelo.
Hanno riscoperto l’importanza dei piccoli gesti, la magia di chi si ferma per offrire aiuto, di chi vuole raccontare una storia, per quanto brutta possa essere.
Il mare visto da 1600 metri di quota è stupendamente blu.
Ai ragazzi di Capizzi,
per la stupenda ospitalità.
Non potremo dimenticarla mai.